Uno non vale uno by Massimiliano Panarari

Uno non vale uno by Massimiliano Panarari

autore:Massimiliano Panarari [Panarari, Massimiliano]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Marsilio
pubblicato: 2018-11-14T23:00:00+00:00


SCORRETTI E VINCENTI

A dare l’impronta più omnicomprensiva e condivisa alla (per niente) magnifica ossessione della veracità è, però, la sovversione della logica alto/basso. Che arriva sempre per direttissima dalla temperie postmoderna, e fa brutalmente coincidere il rispetto dovuto alla diversità – e, quindi, anche il pluralismo – con la manifestazione somma dell’ipocrisia. Perché, nel frattempo, quella abolizione di distinzioni sotto il profilo delle scelte estetiche è divenuta oggetto di una completa generalizzazione e di un’estensione alla totalità degli ambiti sociali e politici. E qualunque giudizio di merito, se non perfino di valore riguardo la strutturazione di contesti sociali «alternativi» o meno tradizionali, viene accusato di ogni genere di nefandezza e travolto dall’esecrazione di tutta una compagnia di prevaricatori che si presentano come prevaricati. È la strategia del vittimismo – e, nuovamente, del rovesciamento e del sovvertimento – in cui eccellono i leader populisti, coi lupi che si travestono da Cappuccetto rosso (anche se, chiaramente, non è questo il riferimento cromatico nella fattispecie più appropriato). E a venire additato al pubblico ludibrio quale imputato principale è un orientamento ideologico nato nell’ambito della sinistra statunitense degli anni trenta del Novecento, a cui si è già fatto riferimento: il PC, che non sta per Partito comunista, ma per «politicamente corretto», e viene considerato dai suoi detrattori alla stregua della sentina di ogni corruzione.

Una sigla conosciutissima nel mondo anglosassone e una categoria ombrello che raccoglie visioni che vanno dal femminismo al multiculturalismo e al movimento LGBT: parlare di «correttezza politica» davanti agli alfieri della politica populista genera il medesimo effetto dello sventolare un drappo rosso davanti a un toro, infervora uno scontro nel quale fioccano i colpi bassi e, come largamente documentato dalle ultime consultazioni elettorali da un capo all’altro dell’Occidente, sposta molti voti. I populisti stanno avendo sempre più gioco facile nel presentare la political correctness come un’operazione linguistica artificiale che nega la «realtà dei fatti» (il che detto da loro suona inusitato, ma è l’effetto dei paradossi postmoderni) e, quindi, l’autenticità delle cose.

Il politicamente corretto, seppure talvolta ossessivamente rigido nelle sue caselle, tassonomie e classificazioni, rappresenta nei fatti, in ogni caso, pressoché l’unico strumento per garantire la convivenza rispettosa (almeno formalmente, ma le forme, giustappunto, sono importanti) tra i molteplici credi, etnie, gruppi e orientamenti sessuali che compongono la nazione arcobaleno a stelle e strisce. E la sua utilità in questi termini generali appare valida non esclusivamente per gli Stati Uniti.

Nondimeno, a fornire ai propri demolitori alcuni assist sono state proprio le frange più intransigentemente settarie e “di coccio”, per così dire, di una certa sinistra multiculturalista e radical americana, che hanno irrigidito quello che è, appunto, un opportuno codice semantico e un’arma culturale di difesa delle minoranze, dei «diversi» e dei più deboli, fino a farne un tabù inviolabile e ad avventurarsi ai limiti di un estremismo caricaturale. La destra – e non solo quella radicale o populista – ci sta così lucrando elettoralmente alla grande, come dimostra l’ascesa alla presidenza degli Stati Uniti, che ha sfidato parecchie delle leggi di gravitazione della politica, di Donald Trump.



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